Racconti delle Valli - Server Italiano di NWN2

Versione completa: [Dyane A.] Sinfonie mutevoli
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E' così accogliente e piacevole l’oscurità della sera, quando tutto si fa più silenzioso e predisposto al pensiero, quando la morente luce del giorno si trasforma in una strana nostalgia, e stanche candele nella notte si sciolgono come due amanti in un abbraccio di complicità.

Ripongo il liuto sul comodino e fisso il soffitto ammuffito di una stanza di locanda, palcoscenico improvvisato di una danza d'ombre proiettate dalle luci della strada.

Ripenso al teatro, a quella sensazione precaria di esistere, esile e nuda, davanti a persone impegnate soltanto ad appagare una curiosità frettolosa. Una marionetta dall’unico volto con il corpo incessantemente mutevole.

Non avevo ragione a starmene ad aspettare davanti al palcoscenico delle marionette, da bambina? Ancora oggi rifletto sui loro movimenti, e mi dico che tutto è pretesto quel che facciamo qui. Tutto non è sè stesso.
Non è forse più sopportabile quell’involucro di pelle e filo cucito sul volto d’apparenza di una bambola?
E’ per questo che non riesco mai ad andarmene? Anche se si spengono i lumi, anche se mi si dice “si chiude” – anche se dal palcoscenico mi arriva il vuoto col soffio grigio dell’aria, anche se non c’è più nessuno a sedere con me?

* * *

Leggevo un romanzetto da quattro soldi comprato da un rigattiere ad Ashabenford, stasera in locanda.
Nell'attesa tediosa, annegata nel vino, ho avvicinato uno sconosciuto la cui mente era offuscata dall'alcol. Gli ho raccontato quella storia come fosse la mia, solo per giocare con l'inadeguatezza e la malleabilità delle parole, come un felino annoiato con un gomitolo di lana.

Non appena le enunciamo, certe cose stranamente sembrano perdere di valore. Crediamo di esserci immersi fino al fondo degli abissi, e quando ritorniamo alla superficie la goccia d'acqua sulle pallide punte delle nostre dita non assomiglia più al mare da cui proviene.
Ci illudiamo di aver scoperto in una caverna tesori meravigliosi, e quando ritorniamo alla luce del giorno non ne riportiamo che pietre false e schegge di vetro.

E' molto tardi, anche il vociare degli ultimi eroici avventori smarriti nella notte sta svanendo. Fisso la limpida oscurità di queste palpebre chiuse, e lentamente lascio scorrere via la stanchezza dalle mie membra, ritrovando la pace vacua del silenzio notturno.
Il vuoto è la più grande meraviglia che la mia mente abbia mai provato, solo un vuoto passeggero che lenisca questa fame che corrompe i miei pensieri, spingendoli ad afferrare sempre di più.

Respiro la notte, e i meandri di tutto il mio essere si riempiono di una buia quiete, nera come l’inchiostro versato, come gli occhi che a volte mi tentano, come una notte senza stelle che promette sogni d’oblio.
Il nero è lo spazio indefinito della paura, del mistero, della liberazione: nel nero c’è molto da vedere.

Nel nero dell'inchiostro giaggiono sopite tutte le parole che non ho ancora scritto, tutti i mondi che non ho inventato, le tragedie e le meraviglie che un giorno troveranno forma e vivranno altrove come corpi estranei.

* * *

“Il tuo sorriso si è rovinato. Non sarà mai più lo stesso”

Avrei dovuto saperlo, invece rido ancora, rido senza alcuna vera enfasi o sentimento, rido di questa notte scura e della stupidità dell'alba, ladra impacciata di buie trame, ambasciatrice ingannevole di nuove tregue.

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E' un torrido pomeriggio assolato. La Perla del Deserto brulica di gente di ogni etnia ammassata nell'immensa piazza del mercato cittadino. Il vociare dei mercanti, il sudore degli schiavi, i profumi intensi delle spezie: tutto si mescola in un'atmosfera densa che annebbia la vista e ottenebra i sensi. Il caldo del deserto amplifica ogni sensazione e il sangue bollente sotto la pelle pulsa irrequieto nell'attesa della tregua della notte.

Sotto alcuni tendoni varipinti, nell'ombra dei portici, Dyane sta seduta sulle gradinate imbracciando un liuto di squisita fattura. Il legno è laccato di nero e alcune pennellate d'oro ornano il fianco dello strumento con arabeschi tipici della cultura calishita.
La mezzelfa però non suona, immobile come una statua dalle fattezze improbabili, il suo guardo ambrato dal taglio esotico rimane fisso verso la piazza, immerso nell'immenso turbine di folla che mai si placa.


"Non dovresti stare qui, questa mandria di mercanti senz'anima ti travolgerà senza neanche vederti."


Una figura femminile aggraziata e distinta si siede accanto alla meticcia, donandole una fugace carezza al volto, per poi puntare il proprio guardo nella stessa direzione indefinita.
La donna è avvolta in un prezioso abito scuro, attillato quanto basta per impreziosirne le forme senza risultare volgare. Il suo volto è pallido e leggermente spigoloso. C'è una qualche durezza che contrasta con una residua bellezza, ormai prossima a sfiorire verso l'età canuta.


"Lui è morto."


La voce della mezzelfa è atona e vacua, così distante da quella che ci si aspetterebbe fluire da graziose labbra abituate a deliziare i Vizir con sublimi canti.
Tutto il suo corpo, avvolto in veli leggeri e colorati che fanno risaltare il bronzo della pelle, pare abbandonato come un involucro svuotato d'ogni linfa vitale. Eppure il suo cuore pulsa, la sua pelle trasuda profumi speziati di sandalo e cannella, e il suo volto si sposta, volgendo lentamente in direzione del suolo.


"Non voglio sentirtelo dire mai più."


La voce della donna suona come un ammonimento, addolcito però da un tono materno e placido come acque scure d'un lago specchiante.


"Hai un dono Dyane. Trasforma le parole, vestile di nomi nuovi, mascherale con forme che solo tu puoi creare. Canta ciò che non puoi dire. Svela le ombre travestendole di luce."


Nel dire quelle parole la donna cinge con un braccio la mezzelfa attirandola a sè, accarezzandole i capelli dolcemente, come a volerla cullare e consolare.
Le unghie laccate di nero che si insinuano tra i capelli sottili della meticcia, e infine le sue labbra di un rosso acceso che poggiano un leggero bacio sulla sua testa: una strana figura materna, pietosa e inquietante al contempo.


"Verrò stanotte, ma sarà l'ultima danza. Domani mi unirò a quella carovana, come mi hai chiesto. So che non devo aver paura...ma ne ho."


Lentamente lo sguardo vacuo della mezzelfa pare riappropriarsi di tutta la sua umanità, incupendosi in una latente mestizia.


"Lascia che le tue piume crescano forti e belle, riflettendo la luce con la loro nera lucentezza. Io credo in te."

Per un attimo il piacevole senso di oblio di quella voce così convincente sembra sortire un'effetto magico sulla mezzelfa. Senza dire una sola parola in più si alza dalle gradinate e, voltando le spalle alla donna, sparisce inghiottita dalla folla di Calimport.


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Quella sera, nel sollievo dell'aria più fresca della notte, la barda compone ciò che le è stato chiesto. Parole travestite, come maschere agghindate a festa, che danzano sul ciglio di una melodia sommessa.


♪♫♬ theme ♪♫♬

"Lascia che mi addentri nell’oscurità della mezzanotte.
Attraverso il canto d'un cuore girovago
il suo nome rivive in un tempo infinito.

Precipitando a fondo nell’ignoto,
ora egli non prova alcun dolore.

Lumi tenui brillano sul suo volto,
il giorno non esisterà ancora per molto.

In impenetrabili tonalità muta il suo aspetto.
Colori senza un nome, suoni senza volto.

Luna scarlatta, astro nero di mestizia.
Mentre sono alla ricerca della vita attraverso l’eternità,
il silenzio meditabondo mi intimorisce.

Una sola arcaica usanza in una veste senza tempo.
Segui la mia voce, tieni la via.
Sinfonia di colui che è per sempre smarrito."


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Le finanze di Dyane, la meticcia danzatrice e cantastorie senza gloria e senza fama, si erano piuttosto ridotte nell'ultimo periodo.
Il borsello in cuoio ricamato ondeggiava leggero alla cinta senza tintinnare, e il fedele liuto, fonte di ogni meraviglia dell'arte, risultava sempre più consumato nelle finiture esterne. C'era anche una piccola crepa sul retro, ma non aveva intaccato la cassa di risonanza interna, quindi Dyane aveva deciso di non preoccuparsene.

Non potendosi permettere la carovana, quella sera si era incamminata lungo le vie campestri fino a Peldan's Helm. Una volta raggiunta la locanda era completamente infreddolita, i piedi le dolevano, gli stivali erano sporchi di terra e impolverati, e i lunghi capelli tinti di riflessi bluastri si erano inumiditi e increspati per colpa dell'umidità della sera.
Riconosciuto il gruppo di Fjolnir e compari, con i quali trascorreva di tanto in tanto piacevoli serate, si avvicinò al fuoco per trovare ristoro e rilassare la mente nel confronto con quelle persone così confortanti.
Li aveva definiti "semplici, lineari, rassicuranti". Non era certa che avessero capito davvero ciò che intendeva, ma non era realmente importante.

Sciolse i capelli e con accurata lentezza prese a districarli e lisciarli, per poi raccoglierli nuovamente in una acconciatura decorosa. Non le importava essere in un lussuoso palazzo calishita o nella taverna di un contadino: la sua educazione le richiedeva di non tralasciare mai l'apparenza, la cura del corpo e del modo di porsi al mondo.
Nel mentre li ascoltava, godendosi il sollievo del tepore del fuoco, e sorridendo di quella semplicità di pensiero che la lasciava sempre un po' spiazzata.

Dopo aver ascoltato i racconti di una bizzarra festa in maschera dalle labbra di Sturm, il colosso dal nome pieno di sonorità fantasiose e il comportamento di un lago placido che nasconde foschi fondali, aveva deciso di ritirarsi in stanza per concedersi un meritato riposo.


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Accostò la porta fermandosi con le schiena contro di essa, chiudendo gli occhi e traendo un profondo respiro. Era il suo momento prediletto, quello in cui poteva dare le spalle all'universo intero e immergersi nel buio di una stanza senza sogni, senza immagini.
Sfilò l'abito e i calzari concedendosi la lentezza di gesti semplici e ripetuti, come in un rituale antico che scrolla di dosso tutta la sporcizia accumulata nel vagare per il mondo.

Valli d’ombra negli occhi puntati innanzi, fissando con sguardo vacuo i contorni dei mobili inermi e rigonfi di banale nullità, mentre la calma scendeva lentamente a pervadere le membra, lasciando la mezzelfa come una marionetta inanimata, ripiegata su sé stessa alla fine dello spettacolo.

Spenta qualsiasi candela si infilò sotto le pesanti coperte e iniziò a respirare la notte. La mente lucidamente spietata, e incessantemente laboriosa, intenta a scandire il ritmo del respiro, come un appiglio estremo a una realtà che nel buio lentamente scivolava via.

Poco a poco non rimase altro che un indebolimento melodico, come se una nota infinitamente dolce si prolungasse nell’aria e lei fosse preda di uno svenimento, un vuoto sublime in grado di rimediare all’infelicità e addolcire la stanchezza.

Poco prima di scivolare nel sonno ripensò al racconto di quella festa. Le mancava forse quel mondo? Era nostalgia la morsa allo stomaco che aveva provato, o solo il rimasuglio di una persistenza passata, irrisolta e bruciante?
Si rigirò nel letto con crescente insofferenza. No, non era nostalgia.


* * * *


Calimport – Anni prima

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Il corridoio percorso da ampie arcate è investito dalla flebile luce della luna e debolmente illuminato da alcune fiaccole. Diverse ragazze corrono avanti e indietro urtandosi e rispondendo ai comandi di una donna dalla voce imperiosa e arrogante.
Qualcuna corre con un serpente avvolto sulle spalle, altre con strumenti musicali, altre inciampano sui numerosi veli colorati.
Nell'ampio salone dei ricevimenti è in corso una delle grosse feste di rappresentanza indette dal Vizir per riunire i principali Sabbalad ed Yshahs del circondario. Le schiave dell'harem, istruite a perfezione in tutte le arti, provvedono all'intrattenimento degli ospiti.

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Immune al frenetico via vai, rimango appoggiata al muretto sotto l'arcata principale, osservando rapita il cielo stellato che si dispiega maestoso sopra il deserto.
Ma la magia di quest'attimo di pace viene bruscamente interrotta da una ragazzina bionda che mi strattona afferrandomi un braccio.


"Scendi dalle nuvole inutile mezzelfa. Sbrigati, che tocca a te."


La voce stizzita della jhasina ha l'unico effetto di farmi sbuffare nervosamente, mentre mi lascio trascinare via di malavoglia.

"Ah! E vedi di non rovesciare l'otre di vino come l'ultima volta. Guarda dove metti i piedi!"


Le rivolgo un sorrisetto sfacciato e beffardo, strattonandola all'indietro a mia volta, e mi fermo a fissarla con uno sguardo tagliente.


"Certo certo...tutto quel che vuoi...tanto tra poco me ne andrò da questo stupido posto. Lui mi porterà via."


La biondina mi liquida con un solo sguardo di sufficienza, e riprende a trascinarmi verso il grande portone d'ingresso, dandomi una poderosa spinta dopo avermi spruzzato addosso dell'altro intenso profumo di sandalo che quasi mi soffoca.


"Che stronzate, nessuno se ne va da qui. Smettila di sognare, ingenua mezzosangue."


La voce si perde nel frastuono, mentre faccio il mio consueto ingresso in sala, danzando in punta di piedi e nascondendomi parte del volto con una sapiente danza di veli leggiadri.

La sfarzosa decadenza della nobiltà calishita permea ogni angolo dell'ampio salone agghindato a festa. L'aria è satura di profumi intensi, del vociare degli ospiti inebriati dai vapori dell'alcol, e l'atmosfera è densa di un fumo fitto che distorce i contorni delle cose.


Finisco il mio numero, accolgo gli applausi, sguscio tra gli ospiti rivolgendo loro occhiate languide per farli sentire desiderati e speciali, e infine raggiungo il mio posto sui cuscini dove mi attende il mio prezioso liuto.


Lui si avvicina a me solo dopo qualche ora, guardandomi intensamente per alcuni istanti prima di sparire verso l'uscita.
Il fumo scorre attraverso di noi, impalpabile ed effimero, cambiando i contorni delle cose. Rilasso il mio sguardo e lascio che si immerga nel suo, soffio l’aria per spingerla a carezzare il suo viso, dove le mie mani ora non possono osare.


Nell’ozio, nei sogni, nel lucido delirio del fumo, a volte la verità sommersa viene a galla. Spirito e materia, materia e spirito: mi appaiono adesso così misteriosi. C’è qualcosa di animalesco nell'anima, quando il corpo riesce a trovare attimi di spiritualità…i sensi possono raffinarsi, e l'intelletto degenerare.
Meravigliosa febbre d’insensatezza: due specchi si fronteggiano ed affondano all’infinito.

"Non avresti mai dovuto innamorarti di lui."


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Soppesava alcune monete nella mancina, intenta a contarle con un'espressione svogliata e una lieve smorfia di disappunto, mentre il carovaniere attempato e dall'alito disturbante le teneva addosso lo sguardo viscido.
Dyane gli rovesciò la somma tra le mani, ritraendo le sue con un moto di stizza, pur senza rinunciare ad un educato saluto di congedo, formalità che avrebbe pur sempre rispettato, anche di fronte al suo peggior nemico.


Prima di salire sulla carrozza volse un'ultima occhiata alle ombre della sera che si allungavano sui profili delle case di Peldan's Helm. Ci sarebbe tornata, le piaceva quel gruppo selvatico di orgogliosi guerrieri e donne dal carattere granitico e focoso al contempo.
La diversità dal proprio mondo la incuriosiva, e forse ne aveva avuto abbastanza di passare le giornate con quelli come lei, sempre a rattopparsi maschere usurate sulla faccia, indossando costumi di scena ingrigiti dalla polvere, come vestiti usati cuciti addosso senza prima lavar via il sangue.

A lei era sempre piaciuto cambiar pelle, e strisciare come un serpente ad ogni stagione calda verso nuove forme. Quando anni prima era salita su quella carovana di teatranti girovaghi sapeva che avrebbe trovato esattamente ciò che le serviva, dimenticando il timore recondito di finire semplicemente dentro una nuova gabbia, seppur dai contorni meno definiti.


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Improvvisamente poteva essere tutti e nessuno, possedere mille volti e tanti altri costumi, e avere sempre un sipario a separarla dalla gente. Aveva la netta certezza di poter sperimentare travolgenti passioni pur non vivendo affatto oltre lo spazio di quel palcoscenico.
Così si era abbandonata all’ebbrezza di un mondo in cui tutto era finzione eppure nulla menzogna, ricominciando a nutrire sogni ed illusioni adatti alla sua giovane età, appendendoli come spille su quella che poteva giurare essere ancora la sua vera pelle.

Si scosse dai propri pensieri quando la carovana frenò in modo brusco piantandosi in una pozzanghera. Non si era nemmeno accorta della pioggia che rigava il vetro, liquefando i contorni delle mura di Ashabenford in lontananza.
Legò lo scialle alla testa per non rovinare l'acconciatura e scese accettando l'aiuto di quello che sembrava un borghesotto arricchito, che si era messo a fare il cortese con lei dopo che aveva russato lungo tutto il viaggio.

La grande città si dispiegava come un mosaico iridescente dalle mille possibilità e gli infiniti potenziali incontri. Il vile bisogno di intascare qualche moneta si poteva imbellettare con il pretesto dell'arte, divenendo un fuoco che alimentava da solo sè stesso.
Pochi passi oltre gli imponenti cancelli scorse tra la folla un volto spiccare dalla moltitudine, fissandola man mano che si avvicinava.
Difficile dimenticare i lineamenti di quel mezzelfo, non dopo aver osato sbirciare oltre la fuliggine nel suo sguardo, intravedendo l'ebbrezza di un cupo abisso.

"Non sembri contenta di rivedermi."

"In realtà...non l'ho ancora deciso."

Lui le sorrideva sfrontato e beffardo, aspettandosi una risposta di convenienza. Ma Dyane non aveva bisogno di mentire, non ancora.
Chiacchierarono come già avevano fatto altre volte, utilizzando le parole come lame sottili che accarezzano la superficie della pelle nei punti in cui è più sottile e delicata, tuttavia senza mai affondare nella vertigine del sangue.
C'era qualcosa nell'inquietudine repressa di quel meticcio che la attirava intensamente. Non aveva tuttavia alcuna intenzione di lasciargli condurre le redini del gioco.

Decise di girare attorno alla fortezza inespugnabile della sua maschera, instillando in lui il dubbio di potergli vedere dentro, in qualche modo.
Quando furono sulla riva del lago dalla superficie placida e specchiante, la barda pensò che fosse una meravigliosa opera d'arte l'accostamento di quell'ombrosa irrequietezza con l'idilliaca pace del luogo.

Prese il mazzo dei tarocchi, con illustrazioni delle classiche figure rielaborate nello stile della sua terra d'origine, e iniziò a lasciare che il caso diventasse padrone del gioco.
Fu facile, le bastò una sola carta. Ma parlava di lui o di sè stessa?


~ L'Appeso ~

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"Mi trovo in questa posizione perché lo voglio. Sono stato io a recidere i rami. Ho liberato le mie mani dal desiderio di afferrare, di appropriarmi delle cose, di trattenerle.
Senza abbandonare il mondo, me ne sono ritratto. Ho raggiunto lo stato in cui le parole, le emozioni, le relazioni, i desideri, i bisogni non mi tengono più legato.
Ho la sensazione di cadere eternamente verso me stesso. Mi cerco attraverso il labirinto delle parole, sono colui che pensa e non ciò che viene pensato. 
A una distanza infinita dal fiume dei desideri, conosco la quiete dell'oblio. Non sono un corpo, ma colui che lo abita. Per arrivare a me stesso, sono un cacciatore che sacrifica la preda."


*  *  * 

Ulgoth's Beard – Due anni prima

Salgo le scale con passo pesante, spossata dalla settimana di continui spettacoli e conseguenti notti annebbiate dal vino. Entro nella stanza che ho in affitto ormai da quasi un mese e mi preparo il letto per la notte.
Mi distendo cercando di allungarmi per dare sollievo ai muscoli del mio corpo, e ad occhi aperti ripenso al viaggio che sto facendo, agli scopi che mi sono prefissata, alle lettere che dovrei scrivere...Buio.


Mi sveglio di soprassalto udendo un tonfo oltre la parete. La stanza è imbiancata dal chiaro di luna che filtra dai balconi che ho dimenticato di accostare. Fa un freddo pungente in queste terre e ripenso a quanto mi manca il deserto. 
Rimango sdraiata, immobile, e ascolto ancora. Silenzio.


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Vorrei tornare a dormire ma non ci riesco, ripenso alla ragazza della camera accanto e quel pensiero come un tarlo cominicia a mangiucchiarmi la mente. Non vado a parlarle da qualche giorno, assorbita dai troppi impegni con la compagnia teatrale.

Lei mi piace: cova una debole fiammella di speranza attorniata dalla desolazione di una vita colma delle delusioni che l'hanno lasciata stremata.
E' ad un passo dalla consolazione che potrebbe finalmente dare un senso a tutto, e io sono così presuntuosa che voglio essere lì a porgerle la mano.

Mi alzo e sguscio nel corridoio buio, sfiorando la parete con la leggera vestaglia, fermandomi davanti alla porta che ho varcato altre volte, invitata da lei.
Mi accorgo che ha lasciato le chiavi sulla toppa, attaccate per fuori. D'improvviso capisco che è tutto finito, come un fulmine a ciel sereno che non riesce a scacciare le tenebre della tempesta, la consapevolezza di aver fallito mi pervade lasciandomi a fissare quella porta.
Ora so che nessuno ci entrerà più, ma io voglio ancora sentire il suo profumo, immaginarla seduta a scrivere lunghe pagine di diario per scacciare la tristezza, rivedere un'ultima volta quella sua bellezza appassita, tipica dei vinti.


Giro la chiave ed entro nell'anticamera, frugo nella scrivania e prendo un blocco di fogli riempiti d'inchiostro, di vita e pensieri. Mi siedo ed inizio a sfogliarli, passano minuti, forse ore. Vivo il suo dolore, i suoi sogni, l'amarezza dei fallimenti.

Mi decido ad aprire la seconda porta, verso la stanza da letto vera e propria, mentre il silenzio alimenta l'inquietudine dell'assenza della sua voce che mi racconta storie di una infelice vita.

Solo allora la vedo, sospesa a mezz'aria, la testa reclinata sul petto. Non ha il coraggio di guardarmi. Le tolgo la corda sfilacciata dal collo e la prendo in braccio rimirandone il pallore livido.  

Mentre appoggio sul letto il suo corpo senza vita ripeto a me stessa che ho ancora molto da imparare.

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"Sonno d’oblio, districa le stelle, brucia i ricordi, annienta il dolore.
Purificami attraverso un flusso di buio.
Concedimi una vita che io possa vivere."
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CalimportAnni prima


La sera era calata riversando il suo abbraccio buio e silenzioso tra le strade della Perla del Deserto. Dyane era sgusciata fuori dalle stanze delle schiave utilizzando il passaggio che tutte conoscevano ma usavano con parsimonia, per il terrore di essere scoperte.
Si infilò tra i palazzi, sgattaiolando in un paio di vicoli stretti ormai semideserti, per poi imboccare un'angusta scala in discesa fino ad un anonimo portone immerso nella penombra.

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Quella notte si erano aggiunte al gruppo alcune figure che non aveva mai visto prima. La mezzelfa rivolse loro qualche sfuggente occhiata mentre la donna nel lungo abito scuro, dai preziosi capelli corvini, era intenta ad istruirli con paziente fermezza.

Si liberò del pesante mantello e dal velo che aveva usato per fuggire lungo le strade celando il proprio volto, e si avvicinò alla raffinata arpa intagliata in legno d'ebano. Presa posizione sullo sgabello allungò le braccia cingendo lo strumento con delicate movenze, iniziando a pizzicare debolmente le corde con le dita affusolate, creando una melodia cupa ma intensamente evocativa.

La sacerdotessa chiamò una delle ragazze nuove, minuta, dai lunghi capelli rossi. La stanza era intrisa di una penombra invadente, solcata solo dal debole raggio luminoso di due candele poste agli angoli opposti dello spazio abitabile.
C'era luce appena sufficiente per intuire le espressioni sui volti delle due donne che ora si erano sedute sul tavolino al centro della stanza, fronteggiandosi.
La donna in nero tese la mano invitando la ragazzina ad afferrarla, in un bizzarro braccio di ferro. La novizia obbedì in silenzio, ascoltando con attenzione le regole del gioco: poche, semplici, spietate.
Dyane continuava a suonare nell'ombra del suo angolino, riempiendo di una melodia malinconica i lunghi attimi di silenzio tra le due, che tra una domanda e l'altra continuavano a sostenere i propri sguardi senza mai lasciare il contatto delle mani.

"Ora iniziamo a scavare più a fondo. Dimmi, cosa riempie il tuo cuore di terrore, più d'ogni altra cosa?"

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La ragazzina iniziò a tremare, Dyane poteva percepirlo, come una vibrazione muta nell'aria, come un predatore che annusa l'odore della sua vittima.
Dopo la risposta della rossa, stupida e poco credibile, anche la melodia dell'arpa iniziò a scemare, lasciando le due sprofondare in un silenzio terrificante.


Lo sguardo della donna corvina si trasformò in un abisso insondabile e terribilmente ipnotico, mentre la presa della sua mano pallida e nervosa si faceva sempre più stretta su quella della ragazzina, in una morsa senza scampo. Per un istante Dyane scorse un lieve bagliore metallico scintillarle tra le dita, intuendo il trucchetto della donna.
Qualche istante dopo un rivolo di sangue vermiglio rigava la carne pulsante della mano della ragazza che, atterrita, iniziò a piangere e a cercare di ritrarsi verso una via di fuga impossibile.

La sacerdotessa fece un moto di stizza lasciandole la mano e volgendo con la stessa un cenno ad uno degli uomini incappucciati.


"Portatela via, non è ancora pronta."


Non vi era alcun tipo di emozione in quelle parole, nè un flebile astio nè amarezza, nè delusione. Erano semplicemente atone, pacate, svuotate d'ogni enfasi.
Dyane l'avrebbe ascoltata per ore. Sentiva il bisogno crescente del veleno che stillavano i suoi occhi neri come l’inchiostro, di specchiarsi capovolta in quegli abissi di sogni dimenticati che la sua presenza risvegliava, affondandola nel terrore di ciò che non poteva essere evitato.


"Dyane, vieni mia cara. Tocca a te.
Ora mi darai le tue paure, e io le custodirò per te. Questo ci renderà entrambe molto più forti."


La mezzelfa si alzò esitando con una mano sull'arpa, sfiorandola mentre la abbandonava, per raggiungere il centro della stanza e accomodarsi sulla sedia lasciata vuota.
Il volto della donna in nero non era che una sagoma nell'oscurità, ma il suo sguardo brillava del lontano riflesso delle candele.
La mezzelfa afferrò la mano, e dopo aver chiuso gli occhi respirando a fondo, si preparò a fronteggiare quello sguardo divorante.


"Non deludermi, Dyane."


Non ne aveva alcuna intenzione. Strinse la mano in quella di lei e si protese in avanti sul tavolo, avvicinandosi pericolosamente all'orlo dell'abisso che sprofondava chissà dove oltre quello sguardo buio.
La mezzelfa non mentì, non ne aveva più bisogno. Le parole fluirono, le lasciò colare languide, accogliendo l’estasi e la pena del rancore, bevendo a fondo l’angoscia sublime che come un macigno cercava di ancorarla alla vacuità del mondo.


Quando la sacerdotessa lasciò la presa alla fine del gioco, la mezzelfa ritrasse la propria mano, osservandola. Era completamente illesa, per la prima volta dopo tanti mesi.
Il sollievo del momento non durò che un attimo. Improvvisamente realizzò il compito che l'attendeva, celato in quelle labbra cremisi che ora si tendevano in un sorriso agghiacciante.


***


Le Valli, Locanda dell'Opale d'Acqua - Oggi


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Le numerose vasche d'acqua nel giardino della locanda creano un rilassante sottofondo, una melodia fluida, continua e ripetitiva. Chissà perchè mi piace portarlo sempre vicino all'acqua? Forse per placare la sua divorante propensione al fuoco scuro, o forse solo per infastidirlo di più. Probabilmente ci sono riuscita, perchè continua a guardarsi intorno con una malcelata insofferenza.
Potrei lasciarlo godersi il vino e tranquillizzarsi, o infierire subito. Opto per la seconda.


"Facciamo un gioco, ti va?"


Gli spiego le regole del gioco, sforzandomi di non risultare inquetante come lo era lei, del resto sono molto più brava nella sottile arte della persuasione. Mi piace accarezzare con le parole, amo la musica perchè addolcisce le pene, preferisco un boia che mi trapassi il cuore sorridendomi teneramente.


Stringo la sua mano e mi concentro per essere pronta a sostenere gli sguardi. Sono io che tengo le redini ed ostento sicurezza, ma questo gioco è pericoloso, è come camminare sulle sabbie mobili in punta di piedi.


Lui mente alle prime due domande, non mi è difficile scoprirlo. E' meno scaltro di quanto pensassi, o forse ho solo trovato la tecnica giusta per metterlo alle strette. Ma non è sconfiggerlo che voglio, non c'è competizione, non c'è vittoria in questa giostra perversa.


Lui sanguina, io brucio. Mi trovo a stravolgere le regole trascinata a fondo dal vortice di un gioco che avrei dovuto padroneggiare a perfezione. Lascio che le cose scivolino pericolosamente verso un fondo buio in cui non so cosa troverò, ma ho smesso di avere paura della notte molto tempo fa.


Qualche ora dopo mi ritrovo a fissare il soffitto, distesa su coperte di seta color cobalto in una lussuosa stanza da letto, completamente nuda. Lui si rigira di fianco a me, di tanto in tanto sbuffa. Sorrido. Sono matematicamente certa che non infrangerà le regole e non oserà toccarmi. Forse era una deviazione del gioco non necessaria, ma senza dubbio divertente.


Sollevo la mia mano destra muovendola appena nel buio. Al mio sguardo dal retaggio elfico basta un minimo raggio di luce che filtra da oltre la porta per distinguere i contorni nelle cose.
L'ustione non può rimanere. Sussurro una breve formula magica nelle parole dell'antica lingua del mio popolo, e lentamente la carne guarisce.

Mi rannicchio sul fianco gettando su di lui un'ultima occhiata: ho deciso che mi fiderò.

Respiro la notte e rallento i pensieri. Domattina penserò alla mia risposta. Buio.


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"Ci riflettiamo su questo regno colmo d’ombre, riempito da un crepuscolo senza fine, come stelle nella gola della vacuità che originano una meravigliosa notte."

Peldan's Helm - Oggi

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L’ombra vasta della sera, lenta e nebbiosa, avvolge il paese avanzando tra i vicoli meno affollati. I lumi si accendono e vibrano debolmente ai lati delle strade aumentando le ombre che danzano sul terreno consunto dal via vai della giornata.

Saluto distrattamente il mercante intento a chiudere con diversi lucchetti il portone dell'emporio e continuo a camminare infilandomi in una via secondaria. E' così silenziosa Peldan's Helm dopo il tramonto, l'aria è pregna degli odori che la terra trasuda, gli anonimi profili delle case creano un mosaico tutto uguale, e il fumo dei camini si staglia contro un cielo sempre più colmo di stelle.

Scorro lo sguardo su quest’infinita scena di inutili comparse che è la vita, e mi lascio cadere su una panchina fredda e vuota, abbandonando il peso e la stanchezza del corpo.

~ Poco siamo, poco ci basta. Il mondo toglie ciò che ci dà. ~

La notte succede la sera, venendo come nulla, ricordandomi chi ho cessato di essere. E la curva anonima della strada che ho davanti mi fa sembrare ogni cosa terribilmente insignificante.

La gente ha paura di così tante cose. Dell'ingnoto, degli spettri, degli assassini che strisciano agli angoli delle strade, di una filastrocca che parla di omicidi misteriosi.

Reclino il capo all'indietro a osservare le stelle e inizio a fischiettare un motivetto senza grandi pretese.

~ Quando il viandante canta nell'oscurità rinnega la propria apprensione, ma non per questo vede più chiaro. ~

La spalla mi duole leggermente. Un dolore sopportabile ma insistente, che mi ricorda quanto io sia diversa da loro. Non sono fatta per incontri ravvicinati con pelleverde, nè per sopravvivere dormendo sulla terra umida.

Eppure è una sfida che mi alletta e mi costringe ad essere una volta ancora una marionetta da riempire di intenti sempre diversi.
Finirò a bere birra e far rissa nelle più becere taverne se continuo a star con loro? Sorrido e scuoto la testa, tornando a osservare i lumi dietro le finestre al di là della strada.
Avrò le mie storie, ne sono certa. Così poche cose riescono ancora ad entusiasmarmi davvero.

Una donna con un copricapo grigio in testa si affaccia alla finestra per accendere altre candele nella notte. La danza della fiamma mi ipnotizza per qualche istante, mentre ripenso alla visione magnifica di quella genasi. Fuoco purificatore.
E quel fuoco scuro? Così uguale e così diverso.

"Sai cosa succede a soffiare sul fuoco?"


La sua voce nella mia testa urla ciò he le mie labbra rinnegano. E’ una voce d’insensatezza, di frenesia distruttiva, di lucida follia.
Ho bisogno di placare la sete, di smarrirmi in un dolce oblio soltanto per un po’, magari voglio un semplice diversivo. Forse, in fin dei conti, lo faccio per sentirmi più normale.

"Ormai siamo legati"

Tentenno, ma cerco di non darlo a vedere. Sono tentata e non so nemmeno da cosa. Mi avvicino per accarezzare qualcosa di reale, per percepirne il dolore: per una volta voglio sentirlo con la stessa evidenza con la quale posso toccare ciò che ho davanti.

Il mio è un mondo confuso, che esiste soltanto nel labile confine tra realtà ed illusione. Niente cambia, nulla si trasforma in profondità.

Soltanto la forma si plasma, tra gli sguardi e le cose, creando scenari in grado di influenzare le intenzioni con la loro effimera eppur potente “verità”.

E' un abisso di specchi infilati l’uno nell’altro, in un riflesso senza fine di cui non si può scorgere il fondo. Ma in quel fondo cammina in circoli la mia volontà.

* * *

CalimportAnni prima

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Dice che mi aiuterà, che sotto la sua guida tutto sarà più semplice.
Ma perdo il controllo e non riesco a calmare la mia mente. Deve sbrigarsi, non se ne rende conto. Non può capire.

E’ come una febbre che fruga in me riversando all’esterno tutte le esperienze che avevo ignorato. Sono seppellita dal peso del profondo liberato, e quando mi ordino di stivare di nuovo dentro ogni cosa, ordinatamente, tra le mie mani tutto cresce, si ingarbuglia, diventa eccessivo.
E’ come se non riuscissi più a chiudermi.

"Devi imparare ad attendere. Smetti di sperare che via sia un sollievo, un lieto fine, una scelta risolutrice. Prima lo capirai e prima starai meglio."

Guardo il suo viso come se lo vedessi per la prima volta.
E’ strano come le ombre sui muri a volte proiettino sagome che non avevi previsto.

Esco sbattendo la porta e maledico il giorno in cui l'ho incontrata. So perfettamente che domani mi punirà per questa stupida impertinenza. Mi importa?

"Ormai siamo legati"

E' una notte scura e senza luna, ma le sue innumerevoli ancelle si mostrano chiare e limpide, quasi fossero state lavate dalla pioggia e appese come gemme ad asciugare nel buio.
Cerco di riempire la mia mente di un silenzio opaco, e poi provo a svuotarla lentamente, per addolcire la stanchezza e godermi una quiete caliginosa, piena di sogni lasciati a ristagnare.

Respiro l'aria di questa notte turbolenta, mi disseto del rimbombo sordo che rimane sospeso nell'atmosfera dopo le grida di terrore. Il silenzio che adesso regna è vassallo del caos che ha travolto quest'insignificante locanda gettando gli avventori in una folle disperazione.

- L'oscurità non può essere sconfitta, può solo essere controllata -

Il vino era avvelenato, dicono. E la notte eterna arriverà per mano di qualcuno che nella penombra orchestra un meticoloso spettacolo di marionette. Qualcuno che si fa chiamare "Signore Oscuro".

Vorrei suonare per loro, per addolcire questo sconforto così sublime, ma il silenzio denso di mistero è troppo prezioso per essere infranto.

Rimango qui a guardare mentre trascinano fuori i corpi trasfigurati, osservo le reazioni dei pochi rimasti, annego nell'inquietudine dei loro sguardi.

L'esistenza del terribile è in ogni particella dell'aria stanotte. Lo respiro con parsimonia per non soffocare, ma lentamente si deposita, indurisce, assume in gola forme spigolose, taglienti.

Perché tutti i tormenti e gli orrori sofferti nelle piazze dei patiboli, nelle camere di tortura, nelle guerre sanguinose, nella follia di qualche truce assassino: tutto questo è di una tenace intransitorietà, insiste su di sé, aggrappandosi alla sua terribile consistenza.

Gli uomini vorrebbero poter dimenticare, confidano che il sonno livelli con dolcezza i solchi dolorosi nel cervello, ma poi nei sogni si agitano e sprofondano in un vortice di atavica paura. Così si svegliano ansimanti e lasciano fondere nell'oscurità la luce di una candela, incapaci di bere, come acqua zuccherata, il conforto della penombra.

Vacillanti piccole sicurezze, inconsistenti come nebbia al mattino. Basta il più piccolo cambiamento inspiegabile, ed ecco che lo sguardo arranca alla ricerca di un appiglio impossibile. Allora il contorno di quella forma un istante prima tanto consolante, diventa improvvisamente un margine dell’orrore.

E' lì che vivono quelli come me, nell'indefinito confine tra la paura e il sogno. Spettri in carne ed ossa che hanno smesso di desiderare un'illusioria consolazione.


"Non innamorarti della notte così follemente da non riuscire più a trovare la strada."


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* * *

Resto rannicchiata nel letto dandogli le spalle, avvolta nelle sottili lenzuola, incerta se la sua presenza mi infastidisca o mi rassicuri.
Dai balconi accostati filtra un tenue bagliore che sottolinea vagamente i contorni degli oggetti nel buio. Porto la mia mano davanti al viso e la rigiro lentamente, lasciando che il mio sguardo indugi sull'alone di sangue rimasto, dandomi il tempo di prenderne coscienza.

In notti come questa vorrei semplicemente non essere costretta a pensare. Vago nella penombra, persa tra le sfumature, intrappolata nei miei errori, schiava di un antidoto che mi sfugge continuamente dalle mani.
E improvvisamente il più piccolo particolare mi opprime, mentre tutte le stelle vorticano furiose ingoiando l’ultimo seme della mia lucidità.

Lascio fluire i ricordi ed inauguro sulla scena il trionfo del mio passato, tra spettri e marionette che si agitano scomposti e disarticolati sul palco.
Ho sognato nella mia vita, sogni che son rimasti a lungo con me, e che hanno cambiato le mie idee. Son passati attraverso il tempo e attraverso me stessa, come il vino attraverso l'acqua, ed hanno alterato il colore della mia mente.

Ripenso al momento sublime in cui mi sono trovata scaraventata contro un'alba di infinite possibilità, incapace di scegliere una sola strada tra un milione.
Improvvisamente ero libera ed ero solo me stessa. Potevo essere tutti e nessuno: l'arte mi avrebbe cucito addosso qualsiasi vita io desiderassi.

Ma non desideravo più nulla.
Una bambola troppo usurata, ancora laccata di vernice sulla cera esternamente, ma divorata dalle tarme nelle cavità del suo interno.


Il respiro rauco e pesante dell'uomo che si rigira nel letto mi scuote. Non c'è più nulla adesso, solo i nostri respiri e l'odore acre del sangue che persiste nell'aria stantia.

Una volta ancora le regole del gioco si sono dimostrate labili, e incredibilmente pregne di possibilità che non avrei potuto prevedere. Ogni concessione al compromesso è un passo scivoloso verso il vortice che inghiotte qualsiasi ragionevolezza.

Mi sorprende la facilità imprevista con cui è riuscito a farmi indossare me stessa, lasciandomi il tempo di allargarmi e restringermi fino a calzare alla perfezione. Non avrei dovuto.

Non c'è una passione più diabolicamente impaziente di quella di chi, tremando sull'orlo di un precipizio, medita di gettarvisi. Ed al suo minimo errore ho ceduto senza pensare, assorbendo la follia offertami per dissetarmi nell'assurda speranza di placare il grido.

Ripenso al preciso momento in cui ho perso il controllo, il bisogno di riempirmi di quella sensazione, farla straripare nelle mie viscere, tracimare nella mia mente e dilagare ovunque dentro di me per scacciare le vertigini dell'abisso.

Solo il dolore più acuto tramortisce i sensi fino ad annullarli, nella meravigliosa consolazione di una vacuità intrisa di consapevolezza.


- Stai diventando proprio come lei. E' questo che vuoi? -

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Calimport – Anni prima

Lei mi aspetta in fondo al vicolo avvolta in un mantello scuro damascato, lontano dai lampioni e dagli sguardi di qualche ubriacone notturno. Come una madre premurosa mi segue con lo sguardo mentre mi avvicino, ma delle madri è la più spietata.
Non teme affatto per me, io sono sacrificabile, come tutti, e un brivido terrificante mi scorre lungo la schiena costringendomi a fermarmi un istante prima di arrivare da lei e farmi inghiottire dalla sua diabolica persuasione.

Impossibile guardare la buia quiete dei suoi occhi senza presentire la limpida oscurità della sua voce. Sempre così calma, piacevole, delicata come lo scorrere d'un fiume in pianura.
Ma le sue labbra non si muovono, mi porge una mano pallida e sottile, appesantita da vistosi anelli, in attesa che io le consegni il mio trofeo.

"Avevi ragione, è stato facile, ma non mi sento meglio."

Scosto il mantello e recupero il piccolo fagotto lasciandolo nelle sue mani. E' così leggero ed insignificante, eppure porta su di sè tutto il peso di una terribile colpa.
So già quale sarà la sua risposta ma la attendo comunque, perchè ho bisogno di dissetarmi della sua oscura certezza così confortante.

"Stanotte passerà tutto quanto."

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Ho ancora qualche minuto prima dell'incontro notturno. Una piccola deviazione di percorso è l'ultima concessione che faccio a ciò che resta dei miei sogni infranti.
Scivolo in un paio di vicoli, silenziosa e smarrita in un vortice di pensieri che vorrei poter soffocare per concentrarmi soltanto sulla soddisazione di aver compiuto la mia vendetta.

Salgo le scale e raggiungo la balaustra da cui posso osservare non vista il suo balcone. Lui non c'è, e mi impongo di aspettare, voglio vederlo un'ultima volta prima che scopra cosa le è successo.
Attendo, e lascio vagare lo sguardo nel cielo distante.

Come sarebbe sublime la notte, senza quelle stelle che con la loro luce parlano una lingua sconosciuta. Vi sarebbe solo il vuoto, il nero e il nudo nulla.
Come uno spettro taciturno vorrei solo potermi intrufolare in quella camera, e scivolare silenziosa verso di lui con le ombre della notte, tra carezze di serpente e baci colmi di vertigini.

Ma il tempo passa, e il balcone rimane vuoto.
Ripenso a tutte le volte che l'ho spiato da qui, suonando il liuto mentre lui stava seduto a fumare, immerso nei suoi pensieri.

Una folata di vento solleva un turbine di sabbia che mi annebbia la vista. Chiudo gli occhi e inizio a sprofondare lentamente nella rassegnazione, accettando l'idea di non rivederlo mai più.

Prendo uno dei sigari col suo odore e inizio a fumarlo. Il sapore mi disgusta, ma amo la vista di quelle effimere nubi evanescenti.
Delicate spirali di fumo prendono lentamente la figura del suo pallido viso, in contrasto con il buio profondo della notte.
Sto ancora aspettando che quell'immagine offuscata e indistinta si giri verso di me con aria imbronciata, come per rimproverarmi qualcosa e poi, vedendo la mia espressione stralunata scoppi in una delle sue sonore risate tentatrici.

- Su, voltati. Io sono qui, vicino a te. -

Un leggero alito di vento e un'altra boccata di fumo denso e tutto scompare nel nero buio della notte.


* * *

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Peldan's Helm – Oggi

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Sto imparando a conoscerlo, ad apprezzarlo, a districare la matassa ingarbugliata che lo attornia come una coltre di fumo nero, fumo che odora di illusioni bruciate. Forse sto addirittura iniziando a fidarmi.
Il legame si stringe e la pelle davanti al viso si assottiglia. E' quasi impossibile nascondersi ormai.

"Puoi parlarmene, puoi tirare tutto fuori."

Disillusa e smarrita, come posso spiegargli che c'è solo un enorme e sterminato vuoto?
Sono passati tanti inverni da quando l'ultima delle illusioni mi ha inferto il colpo mortale spezzando la mia integrità. Lui mi ha scalfito l’anima e poi l’hai relegata nel nulla.
Ed io dalla montagna del piacere sono caduta nel vuoto delle mie speranze.

"Guarda nei miei occhi: cosa vedi?"

Un tempo mettevo l’oro tra i capelli e fissavo direttamente il sole. Ora esco nel buio per suonare nella solitudine tutto ciò che non posso soffocare.

E adesso che le ali della notte abbracciano le nostre ombre intrecciate, desidero solo che tu riesca a sentire attraverso la coltre di nebbia scura e densa.

- Mi vedi? Pensi di riuscirci davvero? E allora afferra il mio grido. -

E invece niente, distolgo lo sguardo e annullo me stessa una volta ancora. Mi godo questi momenti di puro abbandono in un fiume che scorre lento, lambendo il mio dolore dolcemente, per trascinarlo alla deriva fino a un oceano profondo e denso di tutta la consolazione che potrei desiderare.

"Bisogna solo trattenere il fiato fino al momento in cui non si è sommersi completamente.
Solo allora nulla potrà toccarci."


Non mi serve sentire altro. Si chiuda il sipario, si spengano le luci. 
Sonno della coscienza. Una melodia che sfuma nella notte che resta.

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Mi hanno stancato anche le parole in questa notte uguale a decine d'altre. Come buchi neri in un alveare in disuso, i giorni si susseguono inghiottendo le futilità di cui li riempio.
La musica è una cura labile, per quanto imprescindibile. Se ancora posso amare qualcosa può essere soltanto l’arte: fra tutte le menzogne la meno ingannevole.

Mi ritrovo ancora una volta a fronteggiarti, consapevole delle tue basilari e palesi intenzioni nei miei confronti, ma mi riservo di lasciarti il beneficio del dubbio che ti sei guadagnato.
Posso accettare questa strana alchimia di intenti che si mescolano, questo sfregio non necessario, la colpevole distrazione che mira soltanto a placare la sete.
Ma tu moriresti per me? Rischieresti per quello che ho scelto di essere?

"Sei un pozzo in cui mi getterei senza ripensamenti."

Imperioso, collerico, irascibile, eccessivo in ogni cosa. Non hai idea di cosa stai chiedendo ma la tentazione è troppo forte perchè io me la lasci sfuggire dalle mani.

"Non sai di cosa parli. Ma..."

L’indicibile attimo che precede lo sprigionarsi della follia. La fune tesa oscilla pericolosamente e il baratro attrae con la forza di un uragano che tutto inghiotte e disintegra.
Mi basta allungare una mano e indurti verso l’abisso, senza rimorso, nessun ripensamento.
Il punto di non ritorno.

La spinta inferta è una dolce carezza, che lambisce ciò che resta di una lucidità cucita addosso alle nostre abitudini, quelle che ci permettono di sopravvivere ogni maledetto giorno.
Ma la caduta che ne consegue è tutt’altro: violenta e terribile. Un grido senza fine che si espande in un pozzo senza uscite né direzioni.

L’oscurità che volevi è giunta. Puoi ancora salvarti o annegare con me.
Annega. Scagliami addosso l’orrore.

Non riesco ad avere paura per me stessa, non ci tengo abbastanza: mi sono spezzata tanto tempo fa, e non c’è nulla nel mio presente che minacci di fare più male.
Tutta la rabbia e la sofferenza che mi riversi addosso servono solo a riempire un pozzo completamente prosciugato. Puoi prendermi, ma non possiederai che una manciata di cenere.

La spirale affonda verso l’oblio, e mi chiedo quando capirai che non toccheremo mai il fondo.
La vertigine della caduta è tutto ciò che ci rimane.

Guarda nei miei occhi, lo vedi? E’ uno specchio che affonda in sé stesso. Nel buio indistinto siamo tutti così simili. Vili, smarriti, senza speranza di redenzione.

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Non ho scelto io chi essere. La sabbia mi cedeva sotto i piedi ed ho dovuto afferrare l'unica mano tesa.
E' stato il solo modo che avevo di salvarmi: annegare in quel flusso denso e scuro, divenire tutt’uno con la notte.
E adesso il rituale si ripete, ogni volta che bevo avidamente alla coppa dell’indicibile, consapevole che il vuoto non può far altro che espandersi.


"Siamo il nostro passato che fallisce nel ritornare
Tutti noi, visionari, con un cappio intorno al collo."


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Credo fosse un giorno d’inizio autunno, il sole pomeridiano era ancora abbastanza forte da scaldare la pelle con i suoi raggi, e il palcoscenico allestito all’aperto brillava di sgargianti colori che tanto piacciono ai mediocri.

Preparavamo uno spettacolo fuori dalle mura della Città dei Duchi, in una zona di passaggio poco distante dalla via principale. Io ero ancora l’ultima arrivata, così mi toccavano i compiti più ingrati nella preparazione della recita, ma non ne facevo lamentela e lasciavo che i giorni scorressero lenti, nell’attesa del tempo in cui il mio talento li avrebbe scavalcati tutti.

Erano passati pochi mesi da quando avevo lasciato Calimport, ed ero ancora troppo impegnata a prendere in mano la mia vita per accorgermi che la lontananza dalla mia mentore stava scavando dentro di me una crescente voragine.

Ho un ricordo vivido di quel pomeriggio, e di quella donna il cui nome era scritto a caratteri colorati sui manifesti.
Rabbrividisco ancora al pensiero dei suoi terribili gesti così chiari e solenni da far dimenticare l’assenza della sua voce. Come una marionetta sapeva elevare alla massima intensità un solo sentimento per volta sul suo viso, e sembrava che potesse svuotarsi totalmente, per poi riempirsi di volta in volta di tutto ciò che il copione le richiedeva.
Mi domandavo se vi fosse qualcosa di intimamente suo, dentro quell’involucro, o se invece la perfezione del nulla l’avesse invasa.

Provavano una scena cardine dello spettacolo che avevo intuito essere una tragedia d’amore.
Lei lo guardò, cadde a terra e gli posò il capo sulle ginocchia. Stette in silenzio, e rimase a lungo così, senza muoversi. Le parole di lui mi scivolarono addosso come inutile fumo disperso dal vento. Non riuscivo a togliere gli occhi da lei e dal suo silenzio angosciante.
Quando la spinse via, lei cadde a terra dinnanzi a lui, in un torcersi spasmodico di tutto il corpo. Fu come se le articolazioni le si fossero spezzate in quel preciso istante. Era atroce a vedersi.
Ad un tratto parve irrigidirsi sempre di più, come chi sopporta una sofferenza fisica suprema; ma poi, con un nuovo impeto, le sue membra si ravvivarono e, come se in lei fosse scattata una molla, gli si gettò al collo.
Non c’è parola che possa dire la potenza di quelle lacrime. Temetti che stesse per disfarsi colando tra le sue braccia e che nulla sarebbe rimasto di lei.

Solo oggi comprendo a fondo il motivo del turbamento che mi provocò quella donna.
Non avevo l’ardire di avvicinarla o di parlarci, né tantomeno di sbirciare in quello sguardo da vicino, per il terrore irrazionale di poterci cadere dentro.
Non avrei mai pensato di arrivare a somigliarle così tanto.


* * * * * * * *

Peldan's Helm

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Apatia stagnante come l’aria di una fredda stanza illuminata dalla debole anima di poche colonne di cera. Sembrano danzare i loro barlumi prima di spirare e morire in una pupilla incandescente.
Un gambo di fumo si solleva sbocciando avido di esistenza, asfissiante, costretto sull’abisso di sé stesso.
Il silenzio dell’attesa rimbomba tra le pareti rivestite di dozzinali arazzi che hanno assorbito l’odore di così tante vite avvicendate notte dopo notte.

Siedo vicino al caminetto e imbraccio il liuto, accarezzando il legno scuro levigato e poi le corde tese, cercando nel silenzio il punto esatto in cui si nasconde la melodia perfetta per questa notte.
Osservo le fiamme consumare un ciocco di legno scarno, ma l'essenza dei miei pensieri è calma e densa come acque scure d'un lago paludoso.

Chiudo gli occhi e mi concentro sulla perfetta oscurità delle mie palpebre chiuse. Nel nero c'è così tanto da vedere.
Lentamente la melodia giunge, come un soffio di vento inaspettato che si insinua tra i capelli portando sensazioni lontane, simili a brividi sotto pelle.



"E’ il bagliore di un illusorio riflesso
che tesse trame nei tuoi occhi.
E’ l’ossessione di una rabbia passata
che sgretola i secondi mentre scivolano via.
La risacca è venuta a prendermi,
costringendomi a sopportare un sole ardente.
Guarda ciò che abbiamo attorno,
guarda quel che abbiamo fatto.

Hey, c’è nessuno?
Non credo di potermi salvare.
Sto affogando qui.

C’è uno spiraglio, una finestra socchiusa,
sciami di locuste colmano il cielo.
Forse semplicemente scomparirò
se non riesco a mantenermi a galla contro la marea.

Per favore, c’è nessuno?
Non credo di potermi salvare.
Sto affogando qui."


Quando riapro gli occhi è come riemergere dal fondo degli abissi, affiorando sulla superfice ferma e densa di acque nere, ma senza possibilità di riprendere a respirare.

- Tratterrai il fiato con me? -

L'eco della sua voce prende il posto del silenzio che è nuovamente calato nella stanza. Scivolo sulla sedia e osservo le ombre che danzano sul soffitto. Ce n'è una diversa. Mi volto di scatto e lui è lì.

"Non ti ho sentito rientrare."

"E io non ti avevo mai sentita cantare."

"Già...Lo faccio solo per me stessa, solitamente."

Metto a tacere la mia mente per un po’, e mi gusto il vino che lui ha portato per ammazzare il tempo in questa lunga notte. Assaporo il gusto dell'attesa che riesce a cullare la mia angoscia con la promessa di una consolazione che è ormai vicina.
So che con lui accanto posso spingermi sull’orlo del baratro senza paura di non far ritorno, e qualsiasi tormento annega in un abbraccio d’oblio che lentamente invade i miei pensieri e mi scorre addosso, lasciandomi inerme e docile ad attendere l’antidoto.

Guardo verso il fuoco che va spegnendosi, ma i miei occhi incontrano i suoi appena mi si para davanti costringendomi ad oscillare in bilico tra la calma di un estremo controllo e la follia dell'istinto che mi percorre la schiena come un brivido troppo a lungo represso.
Lo osservo e mi perdo volutamente nel suo sguardo, assaporando la dolce consolazione di saperlo vicino, così vicino come nessun altro aveva mai osato andare.
Ascolto le sue parole, e la mia gola si fa arida mentre una sete inestinguibile cresce e mi invade, espandendosi a dismisura in concomitanza col desiderio di condividere con lui un rischio troppo grande per entrambi.

Riprendo a bere il vino, ma è solo un insulso liquido che non placherà nemmeno un briciolo della mia sete spropositata, e continuo ad osservarlo al di là delle increspature trasparenti del calice, chiedendomi se anche ora riesca a vedere oltre la mia maschera come ormai gli ho concesso di fare, senza che quest’invadenza mi dia dopotutto fastidio.

Siamo a un passo dal distruggere tutto, basterebbe così poco per far franare la terra sotto i nostri piedi, l'equilibrio è tremendamente precario. Lotto con tutta me stessa contro i miei demoni: non posso rovinare una notte come questa. Che domani crolli pure il palcoscenico, ma adesso ci siamo solo noi due contro il mondo intero.

[Immagine: dyane_lein.jpg]


* * * *


Il piano procede come previsto ma a stento riesco a controllare la rabbia che lentamente scava solchi dentro il petto togliendomi il fiato. Se non colmo i vuoti l'equilibrio vacilla, e sto rischiando molto ultimamente.
Sono gelosa? O semplicemente incazzata con me stessa per le mie debolezze?
Attendo nell'altra stanza in mezzo a decine di persone ma sola. Divorandomi il cuore e affogandolo nel vino.

A furia di ferirmi per avere risposte, nel corso degli anni che mi hanno portata ed essere ciò che sono, è rimasta solo l'ombra di un'anima vuota. Potrei giurare di averla vista talvolta, uscire da me, scendere dall'altare e incamminarsi in giro, fuori controllo.
Ho provato a resistere al richiamo languido di una perfetta oscurità, ma continuavo ad inciampare, persa tra le ombre, ingannata dalle voci. Terrorizzata dall'ignoto, intrappolata in un mondo di delusioni, più cercavo risposte e più andavo in pezzi.
Solo una volta prostrata in ginocchio ho capito che stavo indirizzando male le mie preghiere.
E' tutto così diverso adesso.

- Controllati -

Sono ancora in locanda. Sturm si avvicina porgendomi un pacchettino: è la distrazione di cui ho più bisogno in questo momento. Lo seguo in stanza cercando di focalizzare le mie energie in modo meno distruttivo, e scarto il regalo ritrovandomi tra le mani un vestito di seta nera di pregevole fattura.

"Era di quel folletto dal sangue di ninfa, una creatura meravigliosa e pericolosa. Mi ha ricordato qualcuno che conosco."

Scorro le dita sulla seta leggera e sfuggente, la morbidezza del tessuto mi riporta per un attimo agli immensi mercati esotici della Perla, e la mia mente si rifiuta di tornare al presente per qualche lungo istante.
Lui continua a parlare, mi spiega l'incanto di cui è intessuta la veste, l'anima nera che gli è stata impressa, l'utilità di quella magia. 

"Chiedi l'oscurità, ed eccotene alcuni doni, Dyane."

Sto ancora cercando di riflettere su come avanzare in punta di piedi sul sentiero pericoloso che mi sto scavando verso quest'uomo tanto violento quanto malleabile, quando lui si avvicina, troppo, e mi invade una strana sensazione di fastidio. Ma ricambio le sue attenzioni e gli sorrido stando al gioco, recitando la parte che abbiamo deciso e che dopotutto mi calza a pennello.

“Ricordati, la coppa è vuota.”

Ci usiamo a vicenda, e lo sappiamo entrambi. Ma la febbre che scava dentro di me mi rende insofferente, e a volte non sopporto più l’attesa, né le sue mani, né i suoi sussurri. Ma li desidero nuovamente l'istante dopo.

Ingannami ancora, cambia i miei pensieri, uccidi i sogni e governa tutti i miei sensi. Le preghiere in questa notte potrebbero confortare il più antico dei pianti.

[Immagine: Dy_sturm.jpg]
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